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di Giovanni Dall'Orto


IL DIAVOLO NEI LOCALI
di Giovanni Dall'Orto

La questione se bisogna o no stracciarsi le vesti per la "commercializzazione" nel mondo gay mi pare mal posta. Soprattutto quando viene posta, come succede sempre più spesso, da gruppi gay che poi gestiscono bar, discoteche, serate e seratine rigorosamente di "autofinanziamento", che almeno in un caso noto a tutti "autofinanziano" con un giro d'affari che supera il miliardo di lire all'anno.
E se davvero si crede che il fenomeno abbia assunto dimensioni debordanti, allora forse non si tratta d'un semplice episodio di malcostume, bensì d'un fenomeno sociale, che come tale merita d'essere analizzato. Anche ammettendo che esso sia un male, allora se si vuole curarlo bisogna per prima cosa capire di che malattia si tratta. Proviamo allora a farlo.

Quando si parla della "commercializzazione" del mondo gay italiano si trascura sempre di osservare il dato più macroscopico, cioè che l'Italia è unica in Europa per un fenomeno: la gran parte dei locali è affiliata come circolo privato a un'associazione politica: l'Arcigay. Se ciò avviene qui e non altrove, un motivo ci deve essere.
Questo motivo è semplice da scoprire: potrà spiegarlo facilmente chi, per aver cercato di aprire una sauna gay, si è magari trovato a passare qualche mese al fresco con l'accusa (ovviamente falsa) di avere aperto un bordello. Se locali nati prima ancora della nascita stessa dell'Arcigay hanno poi deciso di affiliarsi ad essa, una ragione l'avranno ben avuta. Anche senza presentare l'Italia come la Chicago di Al Capone, è facile capire che nel Paese delle centomila leggine e dei centomila centri di potere chiunque, dalla Finanza al Questore, dal parroco al Comitato di quartiere, può e vuole chiudere un locale destinato a noi disgustosi "pervertiti". Contrariamente a quel che si dice, dunque, in Italia non è stato il movimento gay che si è "commercializzato", bensì la realtà commerciale che è stata costretta, lo volesse o no, a "politicizzarsi" per sopravvivere. Forse poi all'atto pratico la differenza non è enorme, ma dal punto di vista teorico sì, e ciò spiega la schizofrenia dei gruppi gay (e delle riviste gay come "Babilonia") che da un lato condannano il commercio e dall'altro ne vivono.

A ciò va aggiunto un altro elemento importante: permettendo di aprire locali come circoli privati, l'associazionismo (Arci incluso, ma non solo) ha permesso di aggirare una delle grandi strozzature che hanno da sempre ostacolato il commercio in Italia: il racket delle licenze pubbliche. Concesse col contagocce, a volte non concesse affatto, in certi casi per motivazioni ridicole come quella di Bergamo che durante la guerra fece voto alla Madonna di non permettere l'apertura di discoteche se la città fosse stata risparmiata dai bombardamenti (come fu). Ciò farà forse ridere, ma l'Italia è anche questo: un Paese in cui non si rilasciano licenze commerciali con la scusa d'un fioretto alla Madonna. Non avendo invece bisogno di licenze commerciali, i circoli privati hanno potuto aprire laddove mai e poi mai le autorità avrebbero permesso la nascita d'un locale per omosessuali (inclusa Bergamo, che oggi è una "capitale gay").

Come se tutto ciò non bastasse, va aggiunto che in Italia manca ancora, e temo mancherà ancora per un bel po', un minimo di persone gay fiere di essere quel che sono, visibili, aperte e convinte dell'importanza di sostenere associazioni per la difesa dei loro diritti. Quanto ciò sia vero lo hanno dimostrato proprio i gruppi usciti due o tre anni fa dall'Arcigay accusandola di eccessiva commercializzazione, e che oggi si autofinanziano gestendo iniziative commerciali: né più, né meno dei circoli Arcigay. Ciò rende palese come qui non siamo di fronte a possibili scelte diverse. Ce n'è una sola: adattarsi o morire. A meno di ottenere un finanziamento pubblico, che però impone condizionamenti di solito superiori a quelli necessari per gestire un'attività commerciale.

Tutto a posto, quindi? Non ho detto questo. Per esempio, non tutto va bene nel mondo dei commercianti italiani, alcuni dei quali non sono ancora pronti a un'epoca in cui la concorrenza fra locali gay si fa sempre più agguerrita. Qualcuno rimpiange infatti il bel tempo andato in cui ogni città aveva uno, massimo due locali, e si comporta di conseguenza (come nel caso trattato da Santandrea nel numero di ottobre di Pride&Guide). Fortunatamente, la maggioranza dei gestori ha sfoderato creatività, ingegno e... investimenti per accontentare una clientela che oggi può, se scontenta, scegliere di rivolgersi altrove. Sono finiti i tempi in cui due tavolini e un muro scrostato andavano comunque bene. E qualcuno mi spieghi per favore perché mai, come gay "militante", io dovrei stracciarmi le vesti per la disperazione per questo fatto.

Non tutto mi quadra neppure nella risposta di Dartenuc a Santandrea apparsa sullo stesso numero di Pride&Guide, specie laddove ci presenta la trasformazione dei locali gay in locali "misti" come il futuro che, ci piaccia o no, ci aspetta.
Fare un'affermazione di questo tipo significa non aver capito ciò che proprio lo stesso Dartenuc afferma, cioè che il mercato, ampliandosi, si segmenta e può quindi offrire non solo locali genericamente "gay", ma anche locali gay con una specificità: il posto trasgressivo, il posto tranquillo (tipo bar di quartiere), il posto per il sesso, il posto per le sole chiacchiere... e infine il posto per chi è gay ma non ha il coraggio di ammettere a se stesso di esserlo.
Ebbene sì: oggi esiste uno spazio di mercato persino per quella frangia del mondo gay che teme quel che è ma non riesce a rinunciare a esserlo. Infatti in un periodo in cui il mercato sia pure in crescita dei gay-che-sanno-di-essere-tali è conteso da sempre più locali, può diventare interessante specializzarsi nel pubblico marginale degli incerti, dei "non so", un tempo non attraente (anche perché poco "fidelizzabile", visti i suoi dubbi) mentre oggi è numericamente in crescita man mano che aumenta la liberazione omosessuale.
Tuttavia ce ne corre da qui ad affermare che questo sia il futuro che ci attende. Il futuro non appartiene, come afferma Dartenuc, a questa impostazione. La tendenza di mercato mostra semmai l'opposto: si moltiplicano i locali non più "ambigui", bensì esplicitamente gay, spesso gestiti e posseduti da gay, che si rivolgono a una clientela che sa cosa cerca. I bar non più rintanati in una cantina, ma coi tavolini sulla strada, o con la vetrina visibile ai passanti. Le "one night" solo gay che sbarcano in discoteche che negli altri giorni sono invece etero, e nelle quali i gay rischiano di andare mescolandosi agli altri solo per essere sfottuti o minacciati.
Si aggiunga il fatto che gran parte dei ragazzi "eterosessuali" in cerca di una "esperienza" nei locali "misti" ce la si ritrova cinque o dieci anni dopo in un locale strettamente gay. Per questo il locale che Dartenuc presenta come destinato a trionfare è in realtà solo una nicchia precisa, un terreno di transito che serve e rendere meno traumatico a certi gay il passaggio dalla società "normale" al mondo gay. Piaccia o no, è solo una parte del mondo gay, e non il mondo gay del futuro.
Per il resto, c'è spazio per tutti. Per gli incerti e per i certi, per i gruppi politici e per quelli solo commerciali. L'importante è imparare a rispettare gli uni le scelte degli altri.


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