L'acqua scaturita dalla roccia (Es 17, 1-7)

 

Il racconto presenta lo schema già conosciuto, secondo il quale il popolo si trova nel bisogno, mormora contro Mosè, questi intercede presso Dio e il bisogno viene soddisfatto (cf. Es 15,22-27). Si assiste ad un'intensa ripresa dei temi acqua–sete–tentazione (vv. 2-7), una delle componenti esenziali della teologia del deserto. Il punto essenziale dell'intero racconto riguarda l'atteggiamento premuroso e inatteso di Dio che fornisce l'acqua al suo popolo in un momento in cui non se ne trovava. Dio fornì acqua a un popolo litigioso che aveva dubitato della sua presenza [1]. La narrazione è stata ripresa sinteticamente dai salmi storici: “Spaccò le rocce nel deserto e diede loro da bere come dal grande abisso. Fece sgorgare ruscelli dalla rupe e scorrere l'acqua a torrenti” (Sal 78,15-16; cf. Sal 105,41). Anche il midrash della Sapienza commenta: “Quando ebbero sete ti invocarono e fu data loro acqua da una rupe scoscesa, rimedio contro la sete da una dura roccia” (Sap 11,4).

 

1. Il testo

1Tutta la comunità degli Israeliti levò l'accampamento dal deserto di Sin, secondo l'ordine che il Signore dava di tappa in tappa, e si accampò a Refidim. Ma non c'era acqua da bere per il popolo. 2Il popolo protestò contro Mosè: "Dateci acqua da bere!". Mosè disse loro: "Perché protestate con me? Perché mettete alla prova il Signore?". 3In quel luogo dunque il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: "Perché ci hai fatti uscire dall'Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?". 4Allora Mosè invocò l'aiuto del Signore, dicendo: "Che farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!". 5Il Signore disse a Mosè: "Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani di Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va'! 6Ecco, io starò davanti a te sulla roccia, sull'Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà". Mosè così fece sotto gli occhi degli anziani d'Israele. 7Si chiamò quel luogo Massa e Meriba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: "Il Signore è in mezzo a noi sì o no?".

 

2. Problemi letterari e storia della tradizione

Ci troviamo di nuovo davanti a un testo che è frutto di diversi fonti e tradizioni. I commentatori sono generalmente d'accordo nel ritenere che il v. 1ab, che fa riferimento all'itinerario del viaggio, provenga della fonte P. Il resto della narrazione non sembra rappresenti un'unità letteraria, anche se non esistono criteri per stabilirlo. Ci sono diversi prove che attestano l'esistenza di diversi fonti nel racconto:

(a) La duplice denominazione “Massa” e “Meriba”. Sembra che nel racconto si mischino due ribellioni: a Massa si dubita della presenza del Signore in mezzo al suo popolo, invece a Meriba si mette in discussione l'autorità di Mosè [2].

(b) Il doppione rappresentato dal v. 1b: “Ma non c'era acqua da bere per il popolo” e il v. 2: “E il popolo protestò contro Mosè: dateci acqua da bere!”.

(c) Es 17,1-7 ha inoltre un'evidente connessione con il racconto di Num 20,1-13. Non solo sono strettamente affini per forma e contenuto, ma in entrambi viene conservato il nome Meriba. Num 20 differisce principalmente nell'incentrare il racconto sulla tradizione connessa all'ufficio di Mosè [3].

Il problema è complesso. Comunque noi faremo una lettura teologica globale della narrazione a partire del testo attuale. Faremo prima un'analisi esegetica del testo e alla fine una conclusione sul senso teologico e spirituale dell'intero racconto.

 

3. Lettura esegetica e teologica

3.1 Israele apre una causa giuridica (un rîb) contro Mosè

(a) Il rîb

Il testo ancora una volta descrive una situazione limite nel deserto: “non c'era acqua da bere per il popolo” (v. 1b). Questa mancanza di acqua spinge a Israele ad iniziare una vera e propria lite giuridica contro Mosè (v. 2). Purtroppo la traduzione della CEI, che utilizza il verbo “protestare”, non aiuta a cogliere tutta la portata della affermazione del v. 2. Il testo ebraico invece utilizza il verbo rîb, tipico della “lite” giuridica (che appunto in ebraico viene chiamata rîb). La costruzione ebraica “verbo rîb + `im” che ricorre al v. 2 indica una azione giuridica contro qualcuno e si dovrebbe tradurre: “Il popolo accusò a Mosè” oppure “il popolo rinfacciò a Mosè”, sempre in senso giuridico. La stessa costruzione si trova in Gen 26,20; Num 20,3; Giob 9,3; 13,19; 23,6; 40,2; Prov 3,30; Neem 13,25”.

Dunque al v. 2 si descrive un vero e proprio rîb (cf. 1Sam 26; Is 1,1-10; Sal 50-51; Gb 13,3; 16,18-21; 23,3-4; Ab 1,2-4; 2,1-4; ecc.). Israele intenta una causa contro Mosè, una contesa giuridica a due, in cui i due contendenti devono risolvere il conflitto senza l'intervento di un terzo, che farebbe da giudice. Secondo un noto specialista che ha studiato l'argomento: “un rîb è una controversia giuridica che si viene a creare fra due parti su questioni di diritto. Per giungere alla contesa, i soggetti in questione devono essere precedentemente relazionati fra loro da un vincolo (anche se non esplicito) di natura giuridica: è necessario cioè che essi facciano riferimento ad un insieme normativo che regoli i diritti e i doveri di ciascuno” [4]. Dunque il popolo rinfaccia a Mosè di essere stato ingiusto nei suoi confronti, cioè di non essere stato fedele alla promessa fatta oppure di non aver dato al popolo ciò che gli spettava.

Il rîb implica quindi la rivendicazione di un diritto e rappresenta un'accusa di colpevolezza nei confronti di Mosè e implicitamente di Dio, come sottolinea la replica di Mosè: “Perché protestate con me (terîbûn `immadî = fatte accuse contro di me, litigate con me)? Perché mettete alla prova (tenassûn, da nasah: tentare, provare) il Signore?” (v. 3). In realtà, Israele aprendo una contesa contro Mosè indirettamente lo fa contro Dio, e mette così in discussione la giustizia salvifica di Dio. È molto più di una semplice protesta. È dire che Mosè e indirettamente anche Dio sono “inguisti”. Israele, in fondo, chiede conto a Dio del suo agire, lo accusa di una volontà non salvifica nei suoi confronti. Nella contesa Dio è ritenuto colpevole [5].

(b) Senso biblico della giustizia

A questo punto risulta utile fare un piccolo riferimento al senso biblico della “giustizia”. Nella Scrittura questo concetto implica una relazione fra due o più soggetti dotati dal principio interiore della libertà. Parlare di giustizia significa porre in atto un discorso che riguarda non un individuo come tale in rapporto ad una legge, ad una realtà materiale, ma il soggetto definito dalla sua relazione con un altro. Tra due soggetti (“A” e “B”) si stabilisce un rapporto: “A” è definito dal suo rapporto con “B” e “B” è definito dal suo rapporto con “A”. Il concetto quindi di alterità è fondamentale nel concetto di giustizia. Il soggetto “A” deve impegnarsi a rispettare il diritto di B, e soprattutto il diritto di “B” di esistere nella sua diversità; e così per “B”. Nel rapporto Dio-popolo, Dio è sempre fedele, sempre rispetta il partner umano ; l'uomo invece è sempre portato a non essere giusto, anzi troviamo in lui una situazione di “ingiustizia originaria”.Cosa succede quando uno non rispetta l'altro ? Si spezza il rapporto si agisce con “ingustizia” nei confronti dell'altro [6].

(c) La contesa di Giobbe e di Abacuc

Due esempi di uomini che “contendono”, che “litigano” con Dio sono Giobbe e Abacuc [7]. In ambedue i libri troviamo il linguaggio de la lite giuridica. Giobbe e Abacuc sono consapevoli di avere un legame di alleanza con Dio. Per questo si sentono in diritto di aprire un dibattimento giudiziario con lui, di discutere con lui una situazione che ritengono ingiusta. Il primo, Giobbe, perché ritiene che il suo dolore non è spiegabile e meritato; il secondo, Abacuc, perché contempla la contraddizione di una storia di ingiustizia e di violenza nella quale Dio sembra scandalosamente assente. Essi quindi chiamano Dio in giudizio, accusandolo di ingiustizia.

Nel caso di Giobbe, è lui a incominciare il dibattito, dichiarando il dolore e l'amarezza di sentirsi vittima innocente; la sua condizione di sofferenza ingiustificata diventa il principale capo di accusa. La sua parola, che rompe il silenzio del dolore, è una protesta di innocenza e mette quindi in discussione la giustizia di Dio. Forse Dio non sa o non può governare rettamente il mondo (9,24; 21,7; 34,12-19), dato che la sorte del innocente è equiparata a quella del reo (9,22)? Come è possibile rassegnarsi a questa situazione? Finché ha respiro, Giobbe esprime il desiderio di confrontarsi personalmente con Dio (13,3; 16,18-21; 23,3-4), così da capire perché l'Onnipotente si comporti come un avversario nei suoi confronti, perché lo aggredisca senza tregua con terrori e ferite (10,2.15-17; 13,24; 16,12-14; 30,21). Come tutti coloro che sono prostrati nel dolore, Giobbe chiede un perché; e questa domanda diventa desiderio di incontro, pretesa di una risposta diretta da parte di Dio (12,4). Giobbe insiste molto perché Dio risponda: “Oh, avessi uno che ascoltasse! Ecco la mia firma! L'Onnipotente mi risponda (31,35; cf. 5,1; 9,15.16.17; 12,4; 13,22; 30,20; 38,1). Ma Dio tace. La sua trascendenza lo rende inaccessibile. I tre amici, volendo giustificare Dio, cercano di far tacere Giobbe, fanno di tutto per soffocare quel grido che pare blasfemo. Giobbe, da parte sua, sa che la sua domanda rimane valida, che la sua istanza di giustizia non può essere disattesa. Per questo non vuole più discutere con gli amici e insiste nel desiderio di parlare direttamente a Dio (cf. il linguaggio giuridico presente in Gb 13,3.6.13.15.18).

Giobbe e giusto (1,1) perché non ha mai violato la legge del Signore, ha anzi espiato le colpe dei suoi figli (1,4-5); ma è giusto soprattutto perché chiede giustizia secondo giustizia, chiede che l'Onnipotente si riveli' lo chiede con forza, come una esigenza fondamentale del suo essere. Egli osa litigare con l'Altissimo perché vuole che Dio si manifesti come Dio, vuole che Dio parli. La sua querela non è affatto una condanna di Dio. Giobbe in fondo sta cercando l'incontro personale attraverso un dialogo che permetta a Dio rivelarsi come Dio e che possa dire la sua parola: “Interrogami e io risponderó, oppure parlerò io e tu mi risponderai” (Gb 13,22) [8]. Sappiamo come finisce il libro di Giobbe. Quando tutto sembra sfociare nell'assoluto silenzio, “dal turbine” si ode finalmente la voce del Signore (38,1; 40,6). Egli lascia udire la sua voce in mezzo a una forma naturale, potente e distruttiva, non per annientare Giobbe ma per risponderle. Il Signore rivela a Giobbe come ci sono tante cose che al mortale sono sconosciute e incomprensibili; nello stesso tempo lo introduce nell'enigma della creazione (Gb 38-39). Giobbe è ammutolito di fronte a questa rivelazione; egli si rende conto di aver parlato in modo precipitoso e resta come abbattuto e senza parole, e si ritiene una minuscola porzione di fronte all'immenso e misterioso cosmo (40,4-5)

Ma Dio fa ancora un passo avanti e continua a interrogare Giobbe (40,6-14): sarà forse Giobbe capace di governare questo mondo meglio di Dio? Finalmente Dio domanda: “Oseresti proprio cancellare il mio giudizio e farmi torto per avere tu ragione?” (Gb 40,8). Giobbe infatti ripetutamente ha ritenuto che la sua sofferenza è stata una ingiustizia da parte di Dio e rivendicato il suo diritto, accusando Dio di ingiusto (cf. Gb 9,19; 13,18; 19,7; 23,4; 29,14). Con i suoi discorsi, Dio ha fatto capire a Giobbe che lui è Onnipotente, non per distruggere come un tirano il male del creato, ma per conservare in vita ogni creatura. Dio ha rivelato a Giobbe l'aspetto ludico della sua opera. Si è presentato come padrone di quello che è funzionale e di quello che è inutile, ha rivendicato la sua libertà e soprattutto ha evocato una sapienza e una logica presente nel cosmo che solo il Creatore possiede e manifesta. Le parole di Dio in realtà non sono una risposta diretta ai quesiti di Giobbe. I suoi discorsi sono una affermazione solenne della sua trascendenza e suggeriscono un ragionamento a fortiori che soltanto la fede sarà in grado di esplicitare: visto che Dio ha creato questo mondo fatto di contrasti e solo lui sa il perché, a maggior ragione bisogna fidarsi di lui per scoprire il senso del suo agire nei confronti degli uomini.

Alla fine, paradossalmente, proprio nel momento in cui Dio cessa di parlare, Giobbe gli chiede di essere istruito dalla sua rivelazione (42,3-4). Giobbe è consapevole della sua limitazione umana e, paradossalmente, invece di restare ammutolito e abbattuto, si apre alla possibilità di un dialogo autentico, in cui la parola e il silenzio si coniugano nella scoperta del vero Dio. Giobbe ha purificato le sue immagini sfigurate di Dio, quelle che lui fabbricava nella sua angoscia e soprattutto quella immagine divina che proveniva dalla teoria della retribuzione. Adesso Giobbe può dire: “Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te... Ho esposto dunque senza discernimento cose troppe superiori a me e che io non comprendo. Ascoltami e io ti parlerò, io t'interrogherò e tu istruiscimi. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono” (Gb 42,5). Davanti a Giobbe si è rivelato un Dio che non distrugge il male in forma dispotica, né si lascia imprigionare dall'uomo in uno schema rigido di castighi e ricompense. Giobbe finalmente ha capito che non può sapere tutto su Dio, né chiedere ragioni sulle sue azioni, né prevedere il suo agire nel mondo. Tutto questo porterebbe al soppiantamento di Dio e alla pretesa di occupare il suo posto. Giobbe è giunto ad ammettere che Dio può essere giustificato senza essere compreso totalmente.

Il litigio si è placcato nel silenzio: Giobbe accetta di non capire il senso della sua sofferenza, perché questa non è giustificabile secondo i parametri di una dottrina teologica (quella della retribuzione). L'uomo sofferente porta in sé delle domande, ha un fondamentale “perché?” che provoca il suo grido e la sua ricerca di senso, che chiede di confrontarsi con Dio. Tutto questo è giusto. Dio stesso loda il parlare di Giobbe preferendolo a quello apparentemente più ossequioso degli amici (42,7). Il “perché” del lamento è legittimo, anzi doveroso, in quanto è un appello a Dio affinché egli riveli la sua giustizia. Ma se vuole essere giusto, il “litigio” deve mantenere la forma della domanda, deve restare una richiesta che l'Altro si manifesti e dica lui l'ultima parola. Solo se si trasforma in un giudizio di condanna, che liquida Dio come crudele o ingiusto, il questionare dell'uomo è ingiusto e dannoso.

Anche Abacuc intenta un rîb, una contesa giudiziaria, a Dio. Il suo punto di partenza è la violenza presente intorno a lui, di fronte a cui il profeta grida a Dio perché intervenga (1,2-4) e lo accusa di stare in silenzio: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: Violenza [9]! e non soccorri? (1,2) [10] . La legittima rivendicazione del profeta non viene ascoltata. Dio continua a tacere. In un certo senso il profeta sperimenta una duplice ingiustizia. Da una parte, l'oppressione che si impone nella società; dall'altra, il silenzio di Dio che non accoglie la richiesta e non interviene per fare giustizia. C'è per tanto una opposizione radicale tra il grido del profeta che esige giustizia e l'ingiustizia apparente del silenzio divino.

Quando lo stesso tribunale di Dio sembra essere incompetente, le conseguenze sono terribili (v. 4). Dio, tacendo, permette che i rapporti tra gli uomini si fondino nella forza incontrollabile della violenza e l'ingiustizia. È questo il caso che Abacuc presenta come lite giuridica a Dio.

C'è una prima risposta di Dio, che manda i Caldei a ristabilire la giustizia con la guerra (Ab 1,5-11). Ma questa risposta non soddisfa al profeta perché no risolve il problema, anzi la violenza aumenta (1,14-17). Abacuc intenta una nuova querela a Dio: “Mi metterò di sentinella, in piedi sulla fortezza, a spiare, per vedere che cosa mi dirà, che cosa risponderà a la mia querela (ebraico: tokahat [11])” (2,1). L'ultima parola di Dio non è quella di 1,5-11. La sua risposta definitiva è testimoniata da una visione scritta, fedele e certa: bisogna aspettare in essa, anche se si ritarda la sua realizzazione. Attraverso questa visione, Dio assicura per l'avvenire il trionfo della giustizia e del giusto. Non c'è, per adesso, un'altra risposta. Il giusto sarà in grado di resistere dalla sua capacità di credere nel giusto intervento di Dio, anche se adesso sembra tacere, e dal suo agire retto in opposizione alla violenza e l'ingiustizia dei suoi oppressori: “Il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 1,4). La fedeltà del giusto si fondamenta nella fedeltà della visione, testimone fedele dell'azione futura di Dio che assicura la vita del giusto.

Al posto di una “parola” di Dio (che si può percepire con l'orecchio), Abacuc è collocato di fronte a uno scritto, sul quale si può leggere una “visione” (che si percepisce con l'occhio). Abacuc insegna a distinguere tra “la vista” (che vede l'ingiustizia nella storia) e “la visione” (che vede la giustizia nel progetto di Dio). Il silenzio divino che ha tanto tormentato il profeta è rotto da colui che legge lo scritto. Proprio in questo atto ti parola (il quale potrà a sua volta essere riprodotto da ogni discepolo del profeta e di ogni lettore dello scritto) si esprime la fede del giusto che vive nel silenzio di Dio. Il profeta e tutti coloro che leggeranno le tavole scritte dovranno mettere la su fiducia in quella parola, testimone fedele e indubitabile dell'azione divina in favore delle vittime innocenti della storia. L'opzione del credente e dunque quella di afferrarsi alla parola di Dio che assicura la vittoria della giustizia e del bene. Così facendo il credente sarà in grado di superare lo scandalo della passività di Dio di fronte alle forze storiche del male e trovare una piccola luce, una discreta parola, in favore della presenza divina nella storia umana.

(d) Israele “tenta” YHWH

Tra la domanda giusta del “perché” e l'atto ingiusto di “tentare il Signore” camminiamo sul filo del rasoio. È molto difficile stabilire la frontiera tra i due atteggiamenti. Sappiamo che la Scrittura ritiene legittimo il lamento e il grido dell'uomo sofferente in quanto è un appello a Dio affinché dica la sua parola e manifesti la sua giustizia. Anzi, in alcuni casi, diventa preghiera e grido doveroso. Quando però questa protesta diventa condanna di Dio ci troviamo davanti a un atto ingiusto nei confronti di Dio e dannoso per l'uomo stesso. Secondo l'interpretazione che ci offre il racconto di Meriba-Massa Israele è stato ingiusto nei confronti di Dio perché lo ha ritenuto colpevole, infedele e mancante di una vera e propria volontà salvifica. Insomma, il popolo ha “tentato” Dio: “Mosse disse loro: `... perché mettete alla prova il Signore?” (v. 2). Infatti, il popolo diceva: “perché ci ha fatti uscire dall'Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame? (v. 6). Tentare Dio o mettere alla prova Dio (verbo ebraico nasah, donde Massa, “luogo de la tentazione o della prova”) è esigere il suo intervento come un diritto, costringerlo a presentare delle prove, sfidarlo e spingerlo a decidersi come se dovesse obbedire agli uomini [12] .

(e) Israele porta con sé la violenza dell'Egitto

Nel testo ci fa allusione a un atteggiamento violento del popolo nei confronti di Mosè: “Allora Mosè invocò l'aiuto del Signore, dicendo: Che faró io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!” (v. 6). Nel deserto, infatti, si rivelano le intenzioni dell'uomo e le fondamenta più nascoste del suo cuore. L'Israele descritto va oltre la forza della parola e del dialogo e tenta di utilizzare quella della violenza contro Mosè. Porta ancora dentro di sé le strutture accecate e irragionevoli dell'aggressività egiziana. Inoltre il popolo così come viene descritto nella narrazione non presenta un atteggiamento adeguato per portare avanti un confronto giusto. Ancora Israele ha più fiducia nella violenza che nella forza di Dio e quindi dovrà ancora sgomberare il cuore dagli idoli e sperimentare che solo Dio conta. Il deserto dovrebbe portare a lo spogliamento totale e l'attesa serena e silenziosa di Dio (cf. Giobbe, Abacuc).

Il deserto è in se stesso un tempo di tentazione e di prova durante il quale Israele deve cercare di compiere definitivamente il passaggio dalla idolatria alla vera fede, dalla mentalità violenta, corrotta e ingiusta (Egitto) a un'altra fondata sulla fiducia in Dio fonte della vita, e sulla fiducia nella forza della parola, della giustizia e dell'amore, che fanno emergere una nuova umanità e nuove forme di rapporto tra gli uomini.

 

2.2 La missione de Mosè (vv. 4-6).

(a) Il non sapere di Mosè

Nei vv. 4-6 si descrive la missione di Mosè che ancora una volta si rivolge a Dio e obbedisce alle sue parole. Mosè invoca l'aiuto del Signore quando il popolo vuole eliminarlo e ucciderlo (v. 4). Va notato che l'invocazione di Mosè non è un semplice lamento. Mosè si mette davanti a Dio con una domanda che lo spinge in avanti: “Che farò io per questo popolo?”. Mosè non intende affatto mollare il suo difficile compito. La richiesta suppone, da una parte il “non saper fare” nei confronti della comunità (cf. Num 11,13-15; 1 Re 3,4-15); dall'altra, la convinzione che è Dio stesso a guidare il cammino del popolo e che certamente continuerà a farlo.

Il “non saper fare” del pastore e simile al “non saper parlare” del profeta (cf. Ger 1,6). Il pastore e il profeta si sentono inadatti ad esercitare una funzione autorevole, a imporre agli altri un cammino oppure una parola normativa, in modo che il loro agire e il loro parlare diventino luogo di obbedienza. Il responsabile della comunità confessa che il “decidere” cosa fare non gli appartiene, non è da lui posseduto come una conoscenza appresa e ripetuta. Il “sapere” e “decidere” cosa fare gli viene donato poiché è Dio stesso a guidare il cammino e il destino del suo popolo. Mosè, proprio nell'atto di negare il suo sapere, afferma che il vero guida del popolo e YHWH.

(b) Mosè rivendicato da Dio

YHWH risponde a Mosè con questa frase: “Passa davanti al popolo” (v. 5). Nell'Antico Testamento l'espressione “passare davanti” (ebraico: `abar lipene) indica l'azione di “andare innanzi” oppure “precedere qualcuno” (Gen 32,17; 33,3; Es 17,5; Dt 3,18; 3,28; 9,3; 31,3; Gs 3,7.11; 1 Sam 9,7; 25,19; 2 Re 4,31). In tre occasioni l'espressione ha come oggetto diretto “il popolo” (ebraico: `abar lipene `am): Es 17,5; Dt 3,28; Gs 3,6. Può indicare l'azione di passare alla testa del popolo come guida e capo, come colui che conduce alla comunità a prendere possesso della terra (Dt 3,28; cf. 3,18). In Gs 3,16 si fa riferimento ai sacerdoti che camminano alla testa del popolo portando l'arca mentre attraversavano il fiume Giordano. In Es 17,5 YHWH ordina a Mosè di “passare davanti al popolo, il che si può interpretare come un ordine divina perché Mosè riprenda la sua autorità e il suo posto di condottiere e guida di Israele. L'ordine divina contrasta con l'atteggiamento del popolo. Mentre Israele cerca di eliminare Mosè, il Signore lo rimette al suo posto. È un vero atto giuridico di rivendicazione: YHWH restituisce a Mosè il diritto di guida del popolo che il popolo aveva voluto sottrargli ingiustamente.

(c) Un atto giuridico e cosmico

YHWH ordina a Mosè di prendere con sé alcuni anziani di Israele (v. 5). Nel contesto del racconto questo gruppo non ha nessun ruolo attivo. Sono soltanto dei testimoni che assisteranno all'azione che Mosè dovrà compiere [13]. Visto che dall'inizio questo racconto è impostato in chiave giuridica, non stupisce il fatto che Dio stesso vuole adesso agire lasciando una testimonianza giuridicamente valida per il popolo.

Inoltre YHWH ordina a Mosè: “Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va!” (v. 5). Il bastone di Mosè è l'emblema del potere divino (Es 4,17: “Terrai in mano questo bastone, con il quale tu compirai i prodigi), che si è manifestato nella storia della liberazione del popolo in Egitto (cf. Es 7,17; 9,23; 10,13; 14,16). Il testo mette il bastone in rapporto con la prima delle piaghe, cioè l'acqua cambiata in sangue (Es 7,14-25). Per capire meglio però la portata teologica e simbolica di questo strumento, bisogna vedere anche la sua utilizzazione nelle altre piaghe [14].

Il bastone soltanto appare in alcune piaghe (prima, seconda terza; settima e ottava): l'acqua cambiata in sangue (Es 7,14-25; cf. 7,15.17.19.20); le rane (7,26-8,11; cf. 8,1); le zanzare (8,12-15; cf. 8,12.13); la grandine (9,13-35); cf. 9,23) e le cavallette (10,1-20; cf. 10,13). All'inizio di questo gruppo di piaghe si offre una indicazione importante in 7,17 nelle parole che Mosè deve rivolgere al faraone: “Dice YHWH: Da questo fatto saprai che io sono il Signore; ecco, con il bastone che ho in mano io batto un colpo sulle acque che sono nel Nilo: esse si muteranno in sangue”. Quindi per mezzo del bastone Dio vuole mostrare che lui possiede un potere particolare. Inoltre va notato che il bastone interviene ogni volta che gli inviati da Dio agiscono sulle acque (7,17.19.20; 8,1), la terra (8,12.13; 10,13) o il cielo (9,23). Queste piaghe hanno come primo scopo manifestare agli occhi degli egiziani chi sia YHWH e così rispondere alla domanda del faraone in 5,2: “Chi è YHWH, perché io debba ascoltare la sua voce?... Non conosco YHWH”. Il bastone dunque interviene ogni volta che Dio si rivela come potenza cosmica e universale. Si potrebbe dire che nella prima, seconda e terza piaga, nelle quali interviene il bastone, si rivela l'esistenza di YHWH (cf. Es 7,17) e il suo particolare potere (cf. Es 8,6); invece nella settima e ottava, nelle quali anche troviamo il bastone, si mostra che non c'è confronto con YHWH, il Dio di Israele, e che niente scappa al suo potere (cf. Es 9,14.16.29; 10,1-2). In conclusione, sembra che il bastone deva essere messo in rapporto con il potere cosmico e universale di Dio [15].

In Es 17,6 quindi l'azione compiuta da Mosè che colpisce la roccia è un vero e proprio atto di rivelazione. YHWH si fa presente come Dio del cosmo e delle forze della natura [16]. Il fatto decisivo è giustamente la presenza del Signore che da efficacia all'azione di Mosè: “ Io starò davanti a te sulla roccia”. L'acqua che scaturisce dalla roccia è quindi segno del potere cosmico di YHWH. L'acqua che scaturisce della roccia nel deserto è simbolo della vita che Dio può e vuole donare al suo popolo. Il tema del dono dell'acqua viva diventa il tema di Dio stesso acqua viva che disseta il suo popolo (cf. Is 41,17-18; Ger 17,13; Ez 47,1.9; Zc 13,1; 14,8) [17]. Nel deserto Israele sperimenta che YHWH è il Signore della vita e il datore della salvezza. Il deserto quindi diviene così un luogo e un tempo di rivelazione di Dio e del suo potere cosmico in favore degli uomini, e quindi anche una occasione di restaurazione di quella giustizia divina che era stata messa in dubbio dal popolo.

 

3. Conclusione

Il deserto è, secondo Num 20,5, “un luogo inospitale... un luogo dove non si può seminare, non ci sono fichi, non vigne, non melagrani e non c'è acqua da bere”. Un luogo dunque che sembra non aver preso parte alle benedizioni di Dio. Paradossalmente è in questa terra bruciata e arida che Dio si mostra potente e vicino. Ecco il paradosso del deserto: nel luogo della sterilità assoluta e simbolo del caos, si manifesta il potere cosmico e fertile del Dio della vita. Il deserto, naturalmente sterile, è adatto a manifestare la potenza vivificante di Dio. Il testo si chiude sottolineando il contrasto tra la promessa di Dio (“Io starò davanti a te”) e la domanda del popolo (“Il Signore è in mezzo a noi sì o no?”). Su questo contrasto, simbolo e espressione dell'esperienza del deserto, si giocherà la intera storia di Israele e la vita di ogni credente. Da una parte, il deserto emerge quando l'uomo si interroga sulla presenza del divino in mezzo al caos; dall'altra, questo stesso deserto sarà sempre il tempo per rinnovare l'esperienza della presenza e il potere dell'Assoluto come salvezza e vita, proprio quando l'uomo sperimenta l'impotenza e scopre la sua debolezza: “quando sono debole, è allora che sono forte” (1 Cor 12,10).


Footnotes

[1] Cf. B.S. Childs, Exodus, 308.

[2] È molto difficile stabilire con certezza la storia della tradizione soggiacente all'attuale narrazione come tra l'altro anche identificare le diverse fonti presenti nel racconto. Per le diverse ipotesi sulle fonti che si trovano dietro il testo attuale, cf. B.S. Childs, Exodus, 306. Riguardo alla storia della tradizione, la spiegazione più comunemente accettata dal rapporto tra i due nomi (Meriba e Massa) è che il nome Massa sia l'elemento proprio del Deuteronomio, introdotto in un secondo momento nella presente narrazione, sulla base del parallelismo poetico che aveva in Dt 33,8 (cf. M. Noth, Überlieferungsgeschichte des Pentateuch, Stuttgart 1948, 127-128; trad. inglese: A History of Pentateuchal Traditions, Englewood-Cliffs 1972). Quindi è molto probabile che il racconto originario facesse menzione soltanto di Meriba, una località vicina a Cades, e che questa tradizione facesse parte del ciclo di Cades (cf Num 20,1-13; Dt 32,51; 33,8; Sal 81,8; 95,8; 106,32); posteriormente gli si avrebbe aggiunto il nome di Massa. Si possono solo fare congetture su come e quando Massa fece la sua apparizione. Secondo Childs, è probabile che Massa e Meriba fossero collegate già a uno stadio antico della tradizione (cf. Exodus, 306). Una dimostrazione della complessità di questo problema è il fatto che il nome di Massa compare solo in Dt 6,16 e 9,22; Meriba (con alcune leggere varianti) si trova soltanto in Num 20,13; Dt 32,51; Sal 81,8 e 106,32. Invece Massa e Meriba sono poste in parallelo ma non sono confuse una con l'altra in Dt 33,8 e nel Sal 95,8.

[3] Cf. B.S. Childs, Exodus, 306-307. Sul racconto di Num 20,1-13, cf. M. Noth, Numbers, OTL, London 1968, 143-147 (originale tedesco: Das vierte Buch Mose, Numeri, ATD 7, Göttingen 1966. Sul libro dei Numeri, cf. G.H. Wenham, Numbers, Old Testament Guides, Sheffield 1997.

[4] P. Bovati, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, AnBib 110, Roma 1986, 21. P. Bovati aggiunge: “Ci pare rilevante l'aver indicato come vi sia distinzione e articolazione tra la “lite a due” e il “processo davanti al giudice”: la prima ha una sua propria consistenza giuridica, può svolgersi e risolversi senza mediazione di una istanza terza; d'altra parte, l'intervento del giudice può, in alcuni casi, rappresentare la ragionevole conclusione di un procedimento che, in un primo momento, metteva in azione solo le due parti in causa. È estremamente ingannevole, dal punto di vista biblico, il sottovalutare in quanto “pre-giudiziaria” la controversia a due, ritenendo che essa sia dotata di minore rigore giuridico rispetto all'istituzione processuale davanti al giudice [...]. La controversia a due mantiene la sua validità giuridica lungo tutto l'arco della storia di Israele; e ciò dipende sia dalla natura dei soggetti che vengono in contesa, sia dalla natura del torto che una parte rinfaccia all'altra” (idem., 26). Per uno studio in dettaglio sulla natura e lo svolgimento de la disputa nel rîb, cf. idem, 27-148. I profeti utilizzarono questa forma de “lite a due” per mettere a confronto il popolo con YHWH, tra i quali c'era un'alleanza d'amore (cf. Is 1; Ger 2,3-19). Nel libro di Giobbe il rîb è utilizzato come metafora giuridica per esprimere le relazioni fra Giobbe e Dio, diventando una vera e propria chiave di lettura del dramma del libro (cf. idem, 99-101; D.J.A. Clines, Job 1-20, WBC 17, Dallas 1989, 337).

[5] Cf. A. Spreafico, Il libro dell'Esodo, Roma 1992, 91.

[6] Quando si spezza il legame di alleanza tra Dio e l'uomo, chi può ristabilire la giustizia? Soltanto Dio, l'unico giusto. Così arriviamo al Nuovo Testamento quando Paolo dice che “tutti abbiamo peccato” e quindi nessuno può rivendicare davanti a Dio un suo diritto alla riconciliazione . Solo Dio può attuare la giustizia e può ripristinare il rapporto. Alla luce di quanto è stato detto si può capire che cos'è sia il peccato. Il peccato non è semplicemente un disobbedire a qualcosa di stabilito, ma è “non riconoscere l'altro”, “non essere fedele ad un rapporto di alleanza” (di amicizia), è essere ingiusti nei confronti del diritto dell'altro (in questo caso, Dio). Il perdono quindi è quell'atto per mezzo del quale Dio rifà l'alleanza, ristabilisce il legame, perché il peccatore ha perso tutti i diritti con il suo agire “ingiusto”.

[7] Cf. A. Spreafico, Il libro dell'Esodo, 92-93.

[8] P. Bovati, Ristabilire la giustizia, 100, commenta: “Il `perché' dell'accusa è ingiusto nella misura in cui si assolutizza, diventando rivendicazione che giudica l'altro, senza attendere che egli possa esprimersi e dire l'ultima parola; il `perché' dell'accusa è invece giusto nella misura in cui è fondato sul desiderio che Dio sia Dio, principio di vita, e che questo sia manifestato nella storia concreta dell'uomo”. In realtà Giobbe non desidera tanto la vittoria nella disputa con Dio, ma la riconciliazione con lui attraverso un dialogo nel quale Dio parli (Gb 13,20-28) (cf. D.J.A. Clines, Job 1-20, 305).

[9] In una querela giudiziaria il contenuto di essa si esprime per mezzo del grido della vittima: “violenza!” (ebraico: hamas). È la stessa persona che soffre l'ingiustizia quella che grida (Ger 20,8; Gb 19,7), oppure qualcun altro che è testimone e che interpreta il grido dell'innocente oppresso (Ab 1,2-3). Questo grido non è semplicemente uno sfogo o una reazione istintiva. È la denuncia di una azione ingiusta che è in atto. Si rivolge sempre a qualcuno, a un soggetto autorevole e giuridicamente obbligato a agire, e si chiede di essere ascoltato in nome del diritto. È, nello stesso tempo, una richiesta di salvezza di fronte all'oppressore e una esigenza di giustizia (cf. P. Bovati, Ristabilire la giustizia, 290-292.

[10] La terminologia del v. 2 rivela una sorta di schema letterario, utilizzato nella preghiera di Israele, che interpreta in modo giuridico e giudiziario la marcia della storia: la richiesta prende la forma di querela, cioè di accusa presentata in sede giudiziale (implorare, gridare, ecc.) direttamente al giudice; quando il giudice accoglie l'istanza giuridica, ascolta e interviene attivamente per fare giustizia, salvando la vittima dalle mani dell'oppressore (cf. P. Bovati, Ristabilire la giustizia, 298-299).

[11] Il termine tokahat significa una presa di posizione in un dibattito giuridico (cf. Ab 2,1; Sal 38,15; Gb 16,3; 23,4).

[12] Cf. G. Auzou, Dalla servitù al servizio, Bologna 1976, 196.

[13] Cf. B.S. Childs, Exodus, 308.

[14] Per un studio sul ruolo del “bastone” di Mosè nei racconti dell'Esodo, cf. J.L. Ska, Le passage de la mer, AnBib 109, Roma 1986, 82-91.

[15] Sul “segno” del bastone cambiato in serpente (Es 7,8-13, bisogna ricordare che questo animale è uno dei simboli più comuni delle forze nascoste e oscure del cosmo. E quindi sembra che il primo segno intenda rivelare il potere nascosto in questo strumento: il potere stesso di Dio sui poteri cosmici che lui ha sottomesso dall'origine o che lui ha creato (cf. Gen 1,21; Sal 148,7) (Cf. J.L. Ska, Le passage de la mer, 87-88).

[16] Va ricordato Es 14,16 quando Mosè col bastone realizza un altro atto cosmico: “Tu intanto alza il tuo bastone, stendi la mano sul mare e dividilo”. Il gesto di Mosè qui rappresenta una azione vicina allo stesso atto creatore poiché le acque saranno divisi ancora una volta (Cf. J.L. Ska, Le passage de la mer, 91).

[17] Cf. G. Auzou, Dalla servitù al servizio, 96-97; A. Spreafico, Il libro dell'Esodo, 94-95.