Messa
del
giorno di Natale
I
Eb 1, 1-6
Gv 1, 1-18
La messa di mezzanotte ci ha introdotto nel mistero di Natale
da una prospettiva teologica di carattere narrativo: la nascita del Bambino, le
condizioni di povertà del fatto, il canto degli angeli, l’annunzio ai pastori.
Invece, la messa del giorno ci aiuta a meditare nella profondità meravigliosa
dell’evento attraverso testi poetici di grandissima bellezza letteraria e
teologica. Il gran tema della liturgia d’oggi è la manifestazione della salvezza
in Gesù. Il Bambino che è nato per il mondo è Dio stesso che ha incominciato ad
abitare tra gli uomini. La tenda dell’Esodo —che ha accompagnato Israele nel
deserto— e il tempio desiderato da Davide, sono adesso sostituiti dal corpo di
Gesù di Nazaret, l’“Emmanuele”, il “Dio-con-noi”. “La Parola si fece carne e
venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14). Colui che è appena nato povero e
fragile è la Parola di Dio per eccellenza. Per mostrare la dignità di questo
Bambino, Giovanni risale solennemente all’inizio d’ogni cosa: “In principio era
la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio… tutto è stato fatto
per mezzo di essa” (Gv 1, 1).
La prima lettura (Is 52,
7-10) è un inno che invita a cantare con gioia perché il Signore regna,
ritorna a Sion e libera Gerusalemme. Si vede correre verso la città il
messaggero, l’evangelizzatore che ormai è giunto a Gerusalemme, e si sente la
sua voce da lontano. L’occhio del poeta riesce a captare la bellezza di quei
piedi insanguinati e stanchi che s’incamminano verso la città santa: “Come sono
belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace,
messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: «Regna il tuo
Dio»” (v. 7). L’editto proclamato da quest’araldo di liete notizie è
sintetizzato da quattro parole: “Regna il tuo Dio”. Un nuovo orizzonte storico
si apre per la città santa. Nel momento più drammatico di Gerusalemme, quando
il popolo ancora piange sulle rovine della città distrutta dal potere
babilonese, in mezzo alla miseria e alla disperazione, il Signore decide di
stendere il suo braccio per mostrare la sua forza, ed interviene in favore del
suo popolo: “Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme,
perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme. Il
Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i
confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio” (vv. 9-10).
La seconda lettura (Eb 1,
1-6) costituisce la solenne introduzione a quell’omelia di accento
esortativo che chiamiamo “lettera agli Ebrei”. Con un vocabolario scelto e con
un tono espressivo, l’autore si colloca nella prospettiva della storia della
salvezza, nella quale Dio ha parlato “molte volte e in diversi modi” per
salvare gli uomini, per rivelare a loro i suoi progetti e comunicare la sua
vita. Dio Padre è il protagonista di tutto questo processo salvifico nella
storia. Assieme a lui però si trova il Figlio di cui si afferma chiaramente e
decisamente l’origine divina e l’uguaglianza con Dio. Il Figlio è stato
presente sin dall’inizio nell’opera della creazione. Lui è stato il fondamento
dell’origine del mondo perché parola creatrice (v. 2), e continua ad essere il
fondamento di tutte le cose nel divenire della storia come “irradiazione della
gloria del Padre”. Lui “sostiene tutto con la potenza della sua parola” (v. 3),
ma il Figlio è presente nella pienezza della sua gloria soprattutto nel momento
culminante della salvezza, quando si è reso “in tutto simile ai fratelli” (Eb
2, 17). L’entrata del Figlio nel mondo ha portato alla pienezza questo sviluppo
di comunicazione e di rivelazione divina: “Ultimamente, in questi giorni, ha
parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose”
(v. 2). Il Figlio è l’ultima e definitiva parola del Padre, il vero centro
della creazione e la pienezza della storia. Le parole della lettera agli Ebrei
sono un’autentica celebrazione dell’incarnazione e un invito ad “ascoltare”
Gesù, unica e definitiva parola del Padre, convinti che i sentieri di Dio e la
sua volontà non si devono cercare per altre vie, come rivelazioni speciali o
comunicazioni straordinarie del cielo. “Infatti,
dandoci il Figlio suo, che è la sua parola, l’unica che Egli pronunzi, in essa
ci ha detto tutto in una sola volta e non ha più niente da manifestare…
Ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da
manifestare… Guarda il mio Figlio… fissa gli occhi su Lui solo” (San
Giovanni della Croce).
Il brano evangelico (Gv 1,
1-18) è il prologo del quarto vangelo: un poema alla Parola di Dio, che
è stato originariamente un inno cristiano nelle prime comunità. Giovanni
incomincia con le stesse parole del primo libro della Bibbia: “In principio”.
Lui vuole certamente mettere in rapporto il principio assoluto d’ogni cosa con
il mistero di Gesù di Nazaret, parola definitiva del Padre. Fin dall’inizio, il
testo proclama l’esistenza di una persona divina, che è la Parola, uguale a Dio
stesso, che lo esprime e rivela, che tutto crea e santifica: “In principio era
la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio. Egli era in
principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui
niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1, 1-3). Sia l’Antico
Testamento sia l’evangelista Giovanni affermano la centralità della Parola nel
progetto creatore di Dio. Difatti, Dio ha creato ogni cosa per mezzo della
Parola. Tutto ciò che esiste è parola di lui. Perciò ascoltare è per il
credente un modo di esistere, è accogliere la vita che Dio sempre ci dà. Questa
Parola creatrice si è manifestata continuamente nella storia per mezzo dei
profeti, come parola di vita e di salvezza: “In lei era la vita e la vita era
la luce degli uomini” (Gv 1, 4). La parola è mezzo di comunicazione, espressione
dell’essere, condizione per il dialogo. Dio ha una parola, una parola appunto
della sua stessa condizione divina, attraverso la quale ha creato tutto ciò che
esiste, e che è arrivata agli uomini comunicando loro la sua vita e il suo
progetto di salvezza.
Il culmine dell’inno giovanneo si trova al v. 14: “E la Parola
si fece carne e venne ad abitare (letteralmente: “pose la sua tenda”) in mezzo
a noi”. La Parola creatrice e onnipotente entra nella storia assumendo la
condizione fragile e mortale d’ogni uomo. Il termine “parola” traduce un
vocabolo greco molto ricco, logos,
che può anche significare “progetto, ragione, sapienza”. Probabilmente Giovanni
si riferisce allo stesso tempo alla parola creatrice del Genesi, alla saggezza
degli scritti sapienziali biblici, e alla ragione dell’universo della filosofia
greca. La locuzione “carne” (greco: sarx)
evoca proprio quella dimensione di caducità e debolezza con cui la Parola si fa
presente nel mondo. L’affermazione di Giovanni riassume magistralmente il
mistero del Dio-con-noi, il cammino storico di Dio attraverso Gesù di Nazaret.
In Cristo si trova la ragione dell’universo, la pienezza di tutto ciò che
esiste, il senso della storia e la rivelazione dei sentieri di Dio. Ciò che è
essenziale ad ogni uomo, l’essere “carne”, adesso si dice della Parola eterna e
divina. Dio ha messo la sua “tenda” nella storia degli uomini, nella debolezza
della carne di Gesù di Nazaret. Il luogo privilegiato della presenza divina non
è più la tenda del deserto (Es 33, 7-10; 40, 35), né il grandioso tempio di
Gerusalemme (1Re 8, 10), ma l’esistenza storica e il trionfo pasquale di Gesù.
Con ragione la comunità cristiana può dire di lui: “Abbiamo visto la sua
gloria”, la gloria di Dio che rivela il suo potere di salvezza in favore degli
uomini, “gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1,
14).
Il Bambino appena nato a Betlemme è la Parola, il Figlio di
Dio, rivelazione perfetta del Padre. Lui è il gran paradosso del mistero del
Natale: la Parola di Dio si manifesta oggi in un bambino che non sa parlare.
Tuttavia, Gesù di Nazaret, nella sua umanità, ci rivela Dio infinitamente di
più che qualsiasi visione soprannaturale o discorso umano anche se molto
profondo. Dio si fa uomo e il natale impone a tutti un’esigenza: diventare
anche noi più umani ogni giorno, più rispettosi della dignità dell’uomo, perché
soltanto così rassomiglieremo ogni volta di più al Dio vivente che ha voluto
condividere la nostra condizione.