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MONTE MORRONE

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Il passo nella montagna delle ”Cinque Croci”

       

 


Il "Cuoppo di Caramanico" con la sua poderosa mole modellata dall’acqua e dal vento improvvisamente lo vedi uscire dalle nude gobbe erbose della cima del Morrone, a duemila metri e non sembra altro che assomigliare ad una "sfinge", ad una forma antropomorfa calcarea, un'imponente scultura della natura protesa in alto con la coda che sembra conficcarsi al suolo, un "faro", una sorta di "motore di ricerca" della montagna creato da una cultura autoctona che scandaglia il paesaggio della dorsale morronese e fa orientare. Un luogo di identificazione che offre "informazioni" ai pastori come le localizzazioni, i numerosi ricoveri durante le bufere, le grotte per ripararsi, i confini e i pascoli migliori nella grande montagna e infine ci dà le coordinate, "l'indirizzo" per le "Le Cinque Croci", che poco più avanti con un pastore raggiungiamo. Un cumulo di pietre e su una lastra incise le croci dei comuni di Sulmona, Caramanico, Pratola, Salle e Pacento che lì, su quella gobba del Morrone, riuniscono i propri confini amministrativi. Un segno distintivo del paesaggio entrato nella memoria collettiva: « Non solo i contadini a piedi, ma anche le famiglie nobili proprietarie di Pratola Peligna mandavano i loro garzoni a prendere l'acqua benedetta di San Bartolomeo passando per le "Cinque Croci"» mi avevano detto a Pratola Peligna, per scender poi il Morrone ad ovest in direzione di Caramanico(620 m.) diretti in una di quelle valli che solcano la Majella nel suo fianco orientale: il Vallone di San Bartolomeo così chiamato, dove sorge l'omonimo eremo in un luogo più noto come Vallone di Santo Spirito. Dopo l'epidemia della fillossera agli inizi del secolo che distrusse buona parte dei vitigni nella Conca Peligna, toccò alla peronospera che attaccava le coltivazioni delle vigne. I contadini di Pratola, allora, attribuivano poteri miracolosi a quell'acqua che da una risorgenza sgorga dalla roccia e poi fuoriesce dalla chiesa dell'eremo di San Bartolomeo per perdersi nella valle e giù nel fiume. "Traevano a frotte i devoti a raccogliervi l'acqua e a spargerla nelle vigne per guarirla dalla peronospera..." scriveva Giovanni Pansa nel volume "Miti, leggende e superstizioni dell'Abruzzo", pubblicato nel 1924. Il viaggio durava un giorno intero, un pellegrinaggio drammatico per le sorti delle piantaggioni. Si riuniva "il vicinato" del rione che doveva affrontare il lungo cammino, svalicavano il Morrone fino alla meta dell'eremo, raccoglievano l'acqua dentro i barilotti in legno poichè solo quell'acqua, ritenevano i contadini di Pratola Peligna, aveva i poteri per combattere la peronospera, salvare i loro raccolti e consentire la sovravvivenza di numerosi nuclei familiari che solo intorno alla viticoltura avevano le uniche risorse agricole. Si racconta che l'acqua di San Bartolomeo veniva portata con un tino in campagna a partire dai mesi di maggio fino a settembre. Si compiva una sorta di rito. L'acqua, con una pianta di "saggina", si aspergeva sui vitigni «come per dare una benedizione - mi dicono - con un gesto a segno di croce, si passava su ogni filare e si gettava l'acqua miracolosa e poi si diceva: opera fatta Dio ci dà una mano, opera finita che Dio la benedica...».

 

  

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