"False accuse alla Chiesa. Quando la verità smaschera i pregiudizi"

di Luigi Negri

Edizioni Piemme, Casale Monferrato, 1997, pp. 247, L. 28.000

 

Capita spesso di questi tempi che - anche tra i cattolici - si riescano ad assommare così tanti e tali equivoci sul significato dei "mea culpa" del Papa, da essere portati non solo a vergognarsi della storia della Chiesa, ma anche a credere - il passo è breve - che la sua stessa missione nel mondo sia priva di senso. L’autore smaschera subito i pregiudizi più grossi, mettendo in luce come, al di là degli inevitabili condizionamenti umani, "(...) la Chiesa vive per comunicare il mistero di Cristo (...)": è questo l’essenziale. Non rendersene conto e soffermarsi soltanto sul limite umano, come ha fatto la storiografia laicista, significa non voler riconoscere nemmeno l’immensa opera di civilizzazione svolta dalla Chiesa, a partire da quando l’annuncio evangelico ha informato di sè il mondo greco-romano e giudaico. Non solo, ma un rapido sguardo su quei periodi storici nei quali la fede o è stata ridotta "a misura dell’interpretazione del singolo" - protestantesimo -, o è stata completamente negata per tentare di costruire una società senza Dio - Illuminismo e Rivoluzione francese -, o è stata inglobata nello Stato - "Libera Chiesa in libero Stato" diceva Cavour -, come nei regimi totalitari contemporanei, fanno dire a don Negri che "la migliore apologia che la Chiesa può fare di sè è il fatto che, dove essa è stata presente nella vita degli uomini e delle società, l’uomo è stato più se stesso, ha vissuto maggiormente la sua libertà, la sua responsabilità e la sua capacità di creatività. Dove, al contrario, la Chiesa è stata emarginata, o ha accettato di esserlo, anche l’uomo è stato negato".

Servendosi di una interpretazione realistica degli avvenimenti, l’autore fa vedere come, ad esempio, la tanto vituperata "teocrazia" medievale non sia stata altro che "una distinzione di poteri con la subordinazione del potere politico al potere religioso, in senso etico religioso".

 

 

Giuseppe Bonvegna

 

Recensione apparsa sul numero 4 Percorsi del marzo 1998