Articolo apparso sul n. 227 di Cristianità

Giacinto de’ Sivo, La Tragicommedia,
a cura di Francesco Maurizio Di Giovine e Gabriele Marzocco,
Editoriale il Giglio, Napoli 1993, pp. 96, L. 15.000

 

Lo sforzo compiuto dalla Rivoluzione per manipolare o cancellare la memoria storica del popolo italiano non ha prodotto soltanto l’inquinamento del patrimonio culturale della nazione, ma ha anche relegato nell’oblio avvenimenti e personaggi particolarmente significativi. Nella storia del Risorgimento — fase italiana della Rivoluzione detta francese — esempio di rilievo di tale pratica è costituito dal trattamento inflitto dalla cultura ufficiale a Giacinto de’ Sivo, scrittore e storico napoletano.

Giacinto de’ Sivo nasce a Maddaloni, in Terra di Lavoro, il 29 novembre 1814, da una famiglia di militari devota alla dinastia borbonica. Il giovane Giacinto preferisce l’arte della penna a quella delle armi e frequenta a Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti, maestro di lingua e di elocuzione italiana. Nel 1836, poco più che ventenne, dà alle stampe un volumetto di versi, cui segue, quattro anni dopo, la prima di otto tragedie, alcune delle quali saranno rappresentate con discreto successo e stampate più volte; pubblica quindi un romanzo storico, Corrado Capece. Storia pugliese dei tempi di Manfredi. Parallelamente all’attività letteraria, entra a far parte della Commissione per l’istruzione pubblica e, nel 1848, è nominato consigliere d’Intendenza della provincia di Terra di Lavoro. L’anno seguente è capitano di una delle quattro compagnie della Guardia Nazionale di Maddaloni, fino allo scioglimento di questa milizia, quindi comanda per alcuni mesi la ricostituita Guardia Urbana. Gli avvenimenti del biennio rivoluzionario 1848-1849, che recano le prime gravi minacce all’integrità dell’antico Stato napoletano, turbano il giovane letterato e lo inducono a dedicarsi alla riflessione storica per comprendere le ragioni dell’immane tragedia che sconvolge l’Europa. I tristi presentimenti diventano presto realtà e, nel 1860, aggredito dalle bande garibaldine e dall’esercito sardo, il regno delle Due Sicilie cessa di esistere dopo una storia sette volte secolare. Giacinto de’ Sivo, fedele alla dinastia legittima, è destituito dalla carica di consigliere d’Intendenza e imprigionato. Scarcerato alcune settimane dopo, è nuovamente arrestato il 1° gennaio 1861; finalmente liberato due mesi dopo, inizia la pubblicazione di un giornale legittimista, La Tragicommedia, che viene soppresso dopo poche settimane. Imprigionato per la terza volta, sceglie la via dell’esilio e parte per Roma, da dove non farà più ritorno. Gli ultimi anni della sua vita sono dedicati alla difesa, spesso polemica, dell’identità nazionale del Paese — appartengono a questo periodo gli opuscoli Italia e il suo dramma politico nel 1861 e I Napolitani al cospetto delle nazioni civili — e soprattutto alla ricostruzione storica. Dà alle stampe una Storia di Galazia Campana e di Maddaloni e pubblica infine la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, che rappresenta il culmine della sua produzione letteraria e storica.

Muore a Roma il 19 novembre 1867, proprio nei giorni in cui — come fu scritto nel necrologio apparso su Il Veridico. Foglio popolare, il settimanale antirisorgimentale la cui prima serie venne pubblicata nella capitale dall’agosto del 1862 all’11 settembre 1870, sotto la direzione di monsignor Giuseppe Troysi — "la gloriosa vittoria di Mentana gli allegrava la magnanima ira e il settenne dolore d’ingiusto esilio e gli stenti di morbo rincrudito".

 

Per circa sessant’anni sull’opera dello storico napoletano ha gravato una coltre di silenzio, sollevata da Benedetto Croce — partenopeo di adozione, ma privo di una comprensione adeguata della storia napoletana, a causa dei suoi pregiudizi storicistici — con un breve saggio, Uno storico reazionario: Giacinto De Sivo (Tipografia Giannini, Napoli 1918, ora in Idem, Una famiglia di patrioti ed altri saggi storici e critici, Laterza, Bari 1949, pp. 147-160), che ne offre però un’interpretazione riduttiva e deformante.

Soltanto nel secondo dopoguerra viene data alle stampe, un secolo dopo la prima edizione, la Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861 (Berisio, Napoli 1964) e vede la luce la prima biografia di Giacinto de’ Sivo, scritta con affettuosa "compassione" dallo storico Roberto Mascia, La vita e le opere di Giacinto de’ Sivo (1814-1867). Il narratore - Il poeta tragico - Lo storico (Berisio, Napoli 1966). Seguono quindi le riedizioni de I Napolitani al cospetto delle nazioni civili (Borzi, Roma 1967) e dell’Elogio di Ferdinando Nunziante, presentato e pubblicato da Bruno Iorio con il titolo Un "eroe" borbonico (Galzerano, Casalvelino Scalo [Salerno] 1989).

Per iniziativa dell’Editoriale il Giglio, realtà animata da Silvio Vitale — uomo politico partenopeo, nonché editore de L’Alfiere. Pubblicazione napoletana tradizionalista, che da anni svolge una meritoria opera culturale in difesa della memoria storica napoletana —, è stato finalmente ristampato il periodico La Tragicommedia.

Il volume — aperto da un’ampia introduzione di Francesco Maurizio Di Giovine (pp. 5-35) e da una breve biografia dello storico di Maddaloni, tracciata da Gabriele Marzocco (pp. 36-41) — propone i tre numeri di questo periodico, fondato il 19 giugno 1861 e sequestrato nove giorni dopo dalle autorità italiane.

La Tragicommedia, che vede la luce nei giorni più drammatici della storia napoletana, nasce con l’intento di "[...] ricordar la patria quando più non v’è patria, ricordar le ricchezze dileguate, l’armi perdute, fra’ rimbombi de’ cannoni, e i gemiti de’ fucilati, e i lagni de’ carcerati" (p. 44). Mentre altri organizzano la resistenza armata nei boschi e sulle montagne, "[...] le nostre armi sono la penna; le provigioni, la logica e la storia" (p. 76). Il vessillo del giornale è il "prepotente amore" alla patria, che non è la "Patria" astratta e letteraria dei rivoluzionari, bensì "idea semplice cui ciascuno intende senza dimostrazione; è il suolo ove siam nati, ove stan l’ossa degli avi, la terra de’ padri" (p. 78).

L’opera storica di Giacinto de’ Sivo non si esaurisce nello sterile rimpianto del passato e nella difesa incondizionata della dinastia borbonica, ma costituisce un’aperta denuncia della malizia e della strategia rivoluzionaria, nonché dell’inettitudine e dell’impreparazione di quanti avrebbero dovuto opporre prima una resistenza e poi, eventualmente, una reazione agli accadimenti.

Anche quando prevalgono lo sdegno per la violazione del diritto e la protesta contro l’"iniquo servaggio" che grava sulle contrade napoletane, non viene meno la consapevolezza del carattere rivoluzionario dell’aggressione al regno delle Due Sicilie, che è soltanto un episodio — anche se macroscopico — dello scontro gigantesco in atto fra la religione e l’ateismo. La "cruenta e atrocissima" lotta che contrappone italiani a italiani passa in secondo piano di fronte a un male più grave, cioè il "dileggio" che lo Stato unitario fa del diritto, della morale e della religione. L’unità politica, dunque, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene realizzata contro la Chiesa e le autorità legittime, a danno dei valori spirituali e civili della nazione. Giacinto de’ Sivo apporta alla cultura cattolica contro-rivoluzionaria un contributo non trascurabile sia per la comprensione della dinamica delle ideologie, che si affermano nella storia attraverso "disegni nascosti" — accanto ad altri "apertamente propagandati""miranti a soggiogare tutti i popoli a regimi in cui Dio non conta" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la XVIII Giornata Mondiale della Pace, 8-12-1984, n. 6), sia per la conoscenza dei meccanismi della Rivoluzione, messi in moto soprattutto da circoli settari di origine massonica, che — dopo aver sradicato la religione dalle classi dirigenti nel corso del secolo XVIII — perseguono l’obiettivo della "democratizzazione dell’irreligione". Anche la dinastia borbonica e le classi dirigenti del reame hanno gravi colpe, la cui "confessione" non è meno utile della denuncia delle manovre settarie. Le calamità del secolo XIX sarebbero incomprensibili senza gli errori del secolo precedente: l’adesione degli intellettuali all’illuminismo, la decadenza colpevole della Nobiltà, il contributo decisivo dato dalla monarchia assoluta all’opera di laicizzazione dello Stato e di secolarizzazione della società, hanno indebolito il regno, che nel momento decisivo non seppe resistere all’aggressione interna ed esterna.

Poiché la Rivoluzione ha potuto procedere solo grazie all’occultamento del suo volto e dei suoi fini ultimi, il mezzo più efficace per combatterla consiste nel denunciarne lo spirito e la strategia: "Strapparle, dunque, la maschera significa sferrarle il più duro dei colpi". (Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, p. 135). Giacinto de’ Sivo ha svolto tale compito con efficacia, meritando l’appellativo di "Tacito della tirannide settaria" — attribuitogli dall’anonimo estensore del necrologio apparso su Il Veridico — per aver "strappato coraggiosamente all’ipocrita la rossa camicia e il tricolore paludamento, disvelando sott’esso di che lagrime grondi e di che sangue". Inoltre, insegna a Napoli e a tutto il Mezzogiorno d’Italia che l’attesa rinascita religiosa e civile può essere perseguita e conseguita soltanto compiendo un profondo esame di coscienza nazionale e ricuperando le proprie radici storiche e spirituali, da tempo conculcate e disprezzate, non solamente da parte di allogeni. 

Francesco Pappalardo