Sulle tracce storiche del bioterrorismo

di Margherita Campaniolo

ERA IL "milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata ... verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata." Così recitava il Boccaccio nella introduzione alla prima giornata del Decameron. E così per secoli si è pensato alla peste, la morte nera che ha devastato l'Europa a cicli alterni, come a un intervento della giustizia divina. E invece, la pestilenza che si abbatté sul nostro continente in quegli anni fu il risultato dell'impiego consapevole di armi biologiche. O, per dirla con termini odierni, dell'uso di armi di distruzione di massa. Un atto di bioterrorismo. E distruzione fu, se pensiamo che la popolazione italiana si dimezzò a seguito della grande pestilenza e in tutta Europa ci furono più di 40 milioni di morti su circa 100 milioni di abitanti.

La peste non fu castigo divino

Chi fu il "bioterrorista" in quell'occasione? E' l'anno 1347 e l'esercito dei tartari sta assediando Caffa, scalo commerciale della città di Genova in Crimea. Le fila dell'esercito orientale sono sconvolte da un'epidemia di peste, diffusa da qualche anno in Asia. Al khan Ganibek viene in mente di utilizzare i corpi dei soldati morti per espugnare la città, catapultandoli oltre le mura. I marinai genovesi che scappano da Caffa sono infettati da Yersinia pestis, il batterio che causa la malattia. Fanno una sosta a Pera, scalo genovese vicino a Costantinopoli, e contagiano la popolazione di questa zona. Nel corso del viaggio verso Genova, si fermano nuovamente a Messina. Da qui però la notizia della peste si diffonde, e alla nave portatrice di morte viene impedita l'entrata nel porto di Genova.

Lo scalo successivo quindi è la città di Marsiglia. Viaggiando assieme ai marinai, Yersinia pestis raggiunge molti porti e città. Dai porti, la malattia si diffonde alle zone dell'entroterra. Entro l'inverno del 1348 tutto il Mediterraneo è contagiato, da Barcellona a Livorno, da Spalato a Venezia. Ma la peste non si ferma qui. Manifestandosi nella forma polmonare, quella più pericolosa che passa direttamente da uomo a uomo, la morte nera raggiunge Parigi, Londra, la Svezia e il Baltico. Poi conquista la Germania orientale e la Russia. Nel giro di cinque anni ha messo in ginocchio l'Europa con una violenza del tutto paragonabile agli eventi bellici dell'ultimo secolo. E non per giustizia divina, ma grazie all'atto deliberato e consapevole di un uomo.

Il vaiolo: un'arma di conquista

Il bioterrorismo è nato in tempi ben più antichi. Nel VI secolo a.C. furono gli Assiri a usare un fungo patogeno della segale, la Claviceps purpurea, produttrice di alcaloidi tossici, per avvelenare i pozzi dei propri nemici. La segale contaminata è nota per essere la causa di numerose patologie, dal cosiddetto Fuoco di S. Antonio alla cancrena degli arti inferiori. Nello stesso periodo, l'ateneo Solone decise di usare un metodo simile per espugnare la città di Cirrha. Utilizzò quindi le radici di elleboro, una pianta erbacea con proprietà purgative, per avvelenare l'acquedotto che portava l'acqua alla città assediata. In questi casi però, diversamente da quanto successo con la peste, l'uso di armi biologiche ha avuto effetti limitati. E' necessario introdurre un altro grande protagonista per vedere la stessa devastazione causata dalla Yersinia: il vaiolo, un virus utilizzato consapevolmente in diverse epoche storiche per decimare gli eserciti e le popolazioni nemiche.

Approdato in America con i marinai di Cristoforo Colombo, il vaiolo esordì decimando l'80 per cento della popolazione di Santo Domingo. E anche se altre malattie hanno contribuito alla devastazione degli indigeni americani, dall'influenza al morbillo, il vaiolo è stata la prima causa del loro declino. Nel 1520, lo spagnolo Hernan Cortes riuscì a conquistare il Messico grazie al virus. In due anni, infatti, tre milioni e mezzo di aztechi erano morti di vaiolo, e in dieci anni la popolazione passò da 25 milioni a 6,4. Fu un virus quindi l'arma decisiva che portò 300 conquistatori spagnoli a governare sulla penisola della grande Technotitlan. E se rimangono dubbi sull'intenzionalità di Cortes nel diffondere la malattia, si sa per certo che Francisco Pizarro distribuì, nel 1532, coperte infette agli incas peruviani, contribuendo così alla loro disfatta e favorendo la conquista spagnola di queste terre.

Ma il vaiolo fu protagonista anche della sconfitta degli indiani americani del nord, i pellerossa Delaware, nel corso della guerra franco-indiana del 1754-1763. Con una lettera al colonnello Henry Bouquet, datata 16 luglio 1763, il generale dell'esercito britannico in Nord America, Jeffrey Amherst, dichiara di approvare il piano suggerito dal sottoposto, cioè quello di distribuire coperte infette per inoculare gli indiani, e aggiunge di "utilizzare qualsiasi altro metodo utile a estirpare questa esecrabile razza." Le coperte provenivano da Fort Pitt (oggi Pittsburgh, Pennsylvania), sede dell'esercito britannico, dove era scoppiata un'epidemia di vaiolo. L'azione ebbe successo, le tribù indiane furono decimate e gli inglesi riuscirono a vincere la guerra.

Oggi, le armi biologiche sono state messe al bando grazie ad alcune convenzioni internazionali, ma la paura non è cessata e anzi si risveglia un po' ovunque. Rimane comunque la consapevolezza che le malattie infettive sono in grado di causare morte e distruzione su grande scala, di essere usate in maniera strategica per sconfiggere un nemico e per vincere una guerra, esattamente come e più di molte armi inventate dall'uomo.

Fonte: ReS Ricerca e Storia, la scienza nei secoli.