Seconda domenica dopo Natale
Questa domenica ci dà
l’opportunità di approfondire il mistero del Bambino nato a Betlemme. “C’è
molto da approfondire in Cristo, perché egli è come una miniera abbondante con
molte vene piene di tesori, che per quanto si scavano, mai ci si arriva alla
fine né al termine, anzi in ogni vena si continua a trovare qua e là ancora
nuove vene di ricchezze” (S. Giovanni della Croce, Cantico Spirituale B, 37,4).
Per questo preghiamo oggi con l’autore della lettera agli Efesini, che Dio
ci “dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda
conoscenza” del suo Figlio diletto (Ef 1,17).
Il brano evangelico che ci
viene proposto oggi canta il mistero del Verbo che è nel seno del Padre (Gv 1,
18), rivolto verso di Lui da tutta l’eternità (Gv 1,1). Questo Verbo,
definitiva rivelazione del Padre ha piantato la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,
14), portando a termine quella condiscendenza di Dio che è già all’opera
nell’Antico Testamento negli interventi di Dio a favore del suo popolo e nel
dono della sua Parola (Sir 24, 8.10-12).
La prima lettura è presa
dall’inno di lode alla Sapienza che si trova in Siracide 24. Sulla scia di Proverbi 8, la Sapienza è
personificata in questo testo. Si è discusso molto sul significato di questa
personificazione perché la Sapienza appare come un essere divino o almeno molto
vicino a Dio ed è come un appello di Dio rivolto agli uomini. Può benissimo
essere una personificazione letteraria per parlare della rivelazione biblica,
un primo tentativo per descrivere ciò che noi oggi chiamiamo “ispirazione
biblica”. Nel nostro testo l’autore stesso identifica la Sapienza con la Torah (v. 23).
Dopo una breve introduzione
(vv.1-2) la Sapienza stessa canta le sue lodi in un inno di 22 versetti –il
numero delle lettere nell’alfabeto ebraico– per indicare la completezza e
perfezione della sua lode. La Sapienza parla della sua origine divina e della
sua presenza nel tempio celeste (vv.3. 10). Essa accenna alla sua presenza e
attività nella creazione e nella storia delle nazioni (vv. 5-6). In tutto il
mondo e tra tutte le genti ha cercato invano una dimora (v.7), ma finalmente il
suo creatore le diede di “piantare la sua tenda” in Israele (vv. 8. 10-12). La
Sapienza descrive la sua bellezza con immagini e profumi tipici della terra d’Israele per farsi desiderare (vv.
13-17) e poter poi rivolgere un invito insistente a quelli che desiderano di
andare da lei (v.19), mangiare e bere da essa (v. 21), ascoltarla e operare
sotto il suo influsso (v. 22).
Chi ha una certa familiarità
con il vangelo di Giovanni non può non notare una grande sintonia di pensiero e
anche di espressioni tra la presentazione che Ben Sirà fa della Sapienza e
quella che l’autore del quarto vangelo fa di Gesù.
Il testo scelto per la seconda
lettura è composto da una piccola parte della benedizione con cui si apre la
lettera agli Efesini (vv. 3-14) e la prima parte della preghiera dell’autore
per i suoi lettori (vv. 15-23).
La benedizione (in greco viene
adoperato qui l’aggettivo eulogetós
che nel Nuovo Testamento viene riservato solo per Dio) è rivolta al Dio e Padre
del Signore nostro Gesù Cristo, l’origine di ogni benedizione, dono e grazia
che sono riversati su di noi per mezzo di Cristo (v. 3). Sei sono i motivi per i quali l’autore
benedice Dio: (a) per averci scelti in Cristo sin dall’eternità (v. 4); (b) per
averci fatti suoi figli adottivi per mezzo di Cristo (vv. 5-6); (c) per averci
redenti col sangue di Cristo (vv. 7-8); (d) per averci rivelato il mistero
della sua volontà di ricapitolare tutto in Cristo (vv. 9-10); (e) per aver
scelto Israele per sperare ed aspettare Cristo (va ricordato che questo titolo
è la traduzione greca del termine ebraico “messia” che significa “consacrato”)
(vv. 11-12); (f) per aver scelto anche i pagani che hanno accolto il vangelo
della salvezza (vv. 13-14).
Questo inno è tutto rivolto al
Padre, fonte primordiale della grazia (in greco cháris, che probabilmente traduce il termine ebraico hésed, che significa “amore, misericordia”,
ed è insieme a ‘emet, “fedeltà”,
caratteristica principale di Dio nell’Antico Testamento). La sua grazia
operante in noi manifesta la sua gloria, ossia il suo valore intrinseco, la sua
risplendente bellezza che ci eleva ad una dignità incomparabile e immeritata.
Ma l’inno risalta anche la
centralità di Cristo nel piano di Dio. E’ tramite lui che tutto ci viene donato
ed è in lui che il Padre vuole portare tutto l’universo al suo compimento (v.
10).
Affascinato da questa visione
grandiosa, l’autore della lettera rivolge poi una preghiera per i suoi lettori
che hanno creduto in Cristo e gli restano fedeli (il greco pístis può
significare sia fede che fedeltà) perché Dio apra i loro occhi a comprendere
sempre meglio a quale grandezza li ha chiamati
(vv. 15-18).
Il brano evangelico (Gv 1, 1-18) è il prologo del quarto vangelo. Si tratta di un poema alla Parola di Dio, che fu originariamente un inno cristiano nelle prime comunità. Giovanni incomincia con le stesse parole del primo libro della Bibbia: “In principio”. Lui vuole senz’altro mettere in rapporto il principio assoluto d’ogni cosa con il mistero di Gesù di Nazaret, parola definitiva del Padre. Fin dall’inizio, il testo proclama l’esistenza di una persona divina, che è la Parola, uguale a Dio stesso, che lo esprime e rivela, che tutto crea e santifica: “In principio era la Parola, e la Parola era presso Dio e la Parola era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste” (Gv 1, 1-3). Sia l’Antico Testamento sia l’evangelista Giovanni affermano la centralità della Parola nel progetto creatore di Dio. Difatti, Dio ha creato ogni cosa per mezzo della Parola. Tutto ciò che esiste è parola di lui. Perciò, per il credente “ascoltare” è un modo di esistere, è accogliere la vita che viene donata da Dio. Questa Parola creatrice si è manifestata continuamente nella storia per mezzo dei profeti, come parola di vita e di salvezza: “In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1, 4). La parola è mezzo di comunicazione, espressione dell’essere, condizione per il dialogo. Dio ha una parola, una parola che possiede proprio la sua stessa condizione divina, attraverso la quale ha creato tutto ciò che esiste, e che è arrivata agli uomini comunicando loro la sua vita e il suo progetto di salvezza.
Il culmine dell’inno giovanneo si trova al v. 14: “E la Parola si fece carne e venne ad abitare (letteralmente: “pose la sua tenda”) in mezzo a noi”. La Parola creatrice e onnipotente entra nella storia assumendo la condizione fragile e mortale d’ogni uomo. Il termine “parola” traduce un vocabolo greco molto ricco, logos, che può anche significare “progetto, ragione, sapienza”. Probabilmente Giovanni si riferisce allo stesso tempo alla parola creatrice della Genesi, alla saggezza degli scritti sapienziali biblici, e alla ragione dell’universo della filosofia greca. La locuzione “carne” (greco: sarx) evoca proprio quella dimensione di caducità e debolezza con cui la Parola si fa presente nel mondo. L’affermazione di Giovanni riassume magistralmente il mistero del Dio-con-noi, il cammino storico di Dio attraverso Gesù di Nazaret. In Cristo si trova la ragione dell’universo, la pienezza di tutto ciò che esiste, il senso della storia e la rivelazione dei sentieri di Dio. Ciò che è essenziale ad ogni uomo, l’essere “carne”, adesso si dice della Parola eterna e divina. Dio ha messo la sua “tenda” nella storia degli uomini, nella debolezza della carne di Gesù di Nazaret. Il luogo privilegiato della presenza divina non è più la tenda del deserto (Es 33, 7-10; 40, 35), né il grandioso tempio di Gerusalemme (1Re 8, 10), ma l’esistenza storica e il trionfo pasquale di Gesù. Con ragione la comunità cristiana può dire di lui: “Abbiamo visto la sua gloria”, la gloria di Dio che rivela il suo potere di salvezza in favore degli uomini, “gloria come unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv 1, 14).
Alla fine del poema troviamo
questa affermazione: “Dio nessuno lo ha mai visto: proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato (exegèomai)” (v. 18).
Giovanni adopera il verbo exegèomai, donde il termine “esegesi”. Gesù di
Nazaret, attraverso le sue parole e le sue azione, è la vera e unica esegesi
del Padre, cioè la sua spiegazione, la sua rivelazione. Per il quarto vangelo è
Gesù e non Mosè il grande e definitivo rivelatore di Dio. Il motivo di questa
asserzione è molto semplice. Gesù non è semplicemente uno dei profeti, magari
il più grande di loro. Gesù è il Figlio unigenito di Dio, il suo Logos (Parola o Pensiero), che già prima
dell’inizio della creazione era tutto rivolto verso Dio (è questo il senso
della particella greca pros, più che
“presso”) ed era egli stesso Dio (vv. 1-2).
L’evangelista prende in prestito il linguaggio veterotestamentario sulla
Sapienza per parlare dell’attività del Verbo nella creazione e la sua funzione
di rivelatore. Come la Sapienza in Sir 24, il Lógos “pianta la sua tenda in mezza a noi” (v. 14). Egli, che già in principio era la vita di
tutto ciò che esiste, la luce della verità che splende nelle tenebre
dell’ignoranza, ora nella sua umanità ci da “il potere di diventare figli di
Dio” (v. 12) e ci comunica grazia e verità (le due caratteristiche di Dio
menzionati sopra, hesed e ‘emet), perché la sua umanità rende
visibile la gloria, cioè la manifestazione di Dio (v.14). In questo prologo di
Giovanni abbiamo una sintesi della teologia del quarto vangelo: il Figlio di
Dio scende dalla sfera divina fino a noi per poterci innalzare alla sfera
divina. Il seno del Padre (1, 18) è il
luogo dove Gesù abita (vedi Gv 1, 38) ed è lì che egli conduce coloro che come
il discepolo prediletto che nell’ultima cena riposava sul suo seno (vedi Gv 13,
23) credono in lui e vivono “in lui” come i tralci nella vite (vedi Gv 15,
1-8).
Il
Bambino appena nato a Betlemme è la Parola, il Figlio di Dio, rivelazione
perfetta del Padre. Questo è proprio il gran paradosso del mistero del Natale:
la Parola di Dio si manifesta in un bambino che non sa parlare. Tuttavia, Gesù
di Nazaret, nella sua umanità, ci rivela Dio infinitamente di più che qualsiasi
visione soprannaturale o discorso umano anche se molto profondo. Dio si fa uomo
e, quindi, il Natale impone a tutti un’esigenza: diventare anche noi più umani
ogni giorno, più rispettosi della dignità dell’uomo, perché soltanto così
rassomiglieremo ogni volta di più al Dio vivente che ha voluto condividere la
nostra condizione.