CORPO E SANGUE DI CRISTO

 

Dt 8, 2-3.14-16

1Cor 10, 16-17

Gv 6, 51-58

 

La prima lettura (Dt 8, 2-3.14-16) evoca il cammino di Israele nel deserto, che in questo passo è interpretato come una prova; una prova che ha umiliato Israele (vv. 2-3). Nel deserto il popolo ha sperimentato in modo radicale "la fame"; in altre parole, ha sentito concretamente la sua fragilità e la sua limitazione, attraverso il bisogno di "mangiare" per potere sopravvivere. Soprattutto però ha vissuto l’esperienza dell’essere alimentato da un altro: Dio gli ha dato un cibo che l’uomo non poteva procurarsi con le sue proprie forze. Per questo, il testo del Deuteronomio invita a ricordare la manna, che Israele non conosceva e neppure i suoi padri avevano mai conosciuto (cf. Dt 8,3). Israele, in effetti, fu sostenuto con un alimento sconosciuto, visto che la manna è un "pane che discende dal cielo" (Es 16, 4), invece che scaturire dalla terra. Questo pane è un segno di ciò che fa vivere l’uomo in modo autentico. Per questo, comprende il segno della manna solamente chi riconosce che l’uomo non vive di solo pane (di quello che scaturisce dalla terra ed entra nella sua bocca), ma anche e soprattutto della parola del Signore, di "ciò che esce dalla bocca di Dio" (che viene dal cielo), per entrare lì dove l’uomo può accoglierla, nell’orecchio e nel cuore (cf. Dt 8, 3).

E’ questa la grande lezione di questo cibo del deserto. Nell’esperienza della sua potenza e della sua fragilità, Israele ha scoperto un segno modesto però efficace dell’amore di Dio. Nel cammino del deserto, quando tutti gli appoggi umani cadono e si sperimenta l’umiliazione della propria insufficienza, si fa anche l’esperienza della presenza (invisibile) del Padre che provvede amorosamente ai bisogni del figlio. Il deserto ha insegnato ad Israele che deve "magiare", cioè, che deva accettare e far proprio quel piccolo segno che Dio gli manda per sopravvivere. Accogliere questo dono significa già superare la prova del deserto.

La manna si doveva raccogliere giornalmente (Es 16, 18), senza preoccuparsi del domani. Accumulare è inutile, anzi il cibo che si conservava in maggiore quantità di ciò che era strettamente necessario, imputridiva (Es 16, 19-20; Cf. Lc 12, 13-21.29-31). A Israele si insegnava così ad avere un’infinita fiducia nella provvidenza misericordiosa di Dio. Nel deserto, l’israelita era chiamato alla fede — fiducia. Per superare la prova del deserto doveva accettare solo quello che Dio gli donava per l’oggi, senza preoccuparsi del domani (cf. Mt 6, 26-29).

Se il deserto è una prova, anche il benessere e il possesso della terra sono un rischio per Israele (Dt 8, 7-20). Il capitolo 8 del Deuteronomio affronta anche la tematica di questo pericolo. Il popolo vive in una grande prosperità materiale, con belle case, molto bestiame, argento e oro (Dt 8, 12-13). Questa situazione di benessere, frutto dell’azione salvifica di Dio, si volge paradossalmente pericolosa: si corre il rischio della "dimenticanza" del Signore. Si può arrivare a morire, non a causa della mancanza di cibo o della mancanza di protezione contro i nemici, come nel deserto, ma a causa della mancanza della verità interiore, perché si giunge a dimenticare il Signore (Dt 8, 14). Il cuore diventa "arrogante" (Dt 8, 14), quando l’uomo dimentica Dio: egli si costruisce idoli che adora e si prostra davanti a ciò che è bello, forte e piacevole. Per questo il Deuteronomio richiama il popolo alla "memoria", affinché "non dimentichi il Signore suo Dio" (cf. Dt 8, 14). Il ricordare la liberazione dalla schiavitù d’Egitto, per mezzo del braccio potente di Dio (Dt 8, 14), come anche l’esperienza umiliante però necessaria del deserto (v.16), hanno la funzione essenziale di collocare come fondamento dell’esistenza la presenza amorosa del Signore all’interno della storia. Il popolo dovrà "ricordare" sempre l’esperienza essenziale del deserto, quando cioè viveva in totale dipendenza da Dio. L’Israelita è chiamato a porre come base della sua esistenza, non il benessere materiale e la prosperità economica, ma quel dono che non perisce, il dono della parola divina. La parola del Dio che "ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri, per umiliarti e provarti, per farti felice nel tuo avvenire" (Dt 8, 15b-16).

La seconda lettura (1Cor 10, 16-17) ci mette di fronte il mistero di un altro cibo che è alimento fondamentale per la vita del cristiano e della comunità ecclesiale: il Corpo e il Sangue di Cristo. Si tratta probabilmente della testimonianza più antica del Nuovo Testamento sul mistero dell’Eucaristia. In questa breve allusione eucaristica, Paolo sottolinea soprattutto la dimensione di "partecipazione" e di "comunione" che deriva dal fatto di prendere il Corpo e il Sangue del Signore. La partecipazione nell’eucaristia crea, in effetti, una comunione con Cristo tanto profonda, che produce e sostiene la comunione con i fratelli. Si tratta di una osservazione teologica fondamentale per evitare che la celebrazione eucaristica diventi un rito vuoto e non sia più autentica "comunione con il Corpo e il Sangue del Signore". La comunione con Cristo nell’Eucaristia si verifica nelle relazioni di fraternità e di giustizia che il sacramento crea tra gli uomini: "Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane" (1Cor 10, 17).

L’Eucaristia, memoriale della consegna d’amore di Gesù, crea un profondo vincolo teologale di amore tra gli uomini e, per tanto, deve essere vissuta dai credenti con lo stesso spirito di donazione e carità con il quale il Signore "offrì" il suo corpo e il suo sangue sulla croce per "voi". La celebrazione eucaristica abbraccia e riempie tutta la storia dandogli un senso nuovo: fa presente Gesù in modo reale nel suo mistero d’amore e di donazione sulla croce [passato]; la comunità, obbediente al comando del suo Signore, dovrà ripetere il gesto della cena continuamente mentre duri la storia: "…in memoria di me" (1Cor 11, 24) [presente]; e lo farà sempre con l’aspettativa del suo ritorno glorioso: "…finché egli venga" (1Cor 11, 26) [futuro]. Il mistero di "comunione" e "partecipazione" dell’Eucaristia nasce dall’amore di Cristo che si offre per noi e, per tanto, dovrà sempre essere vissuto e celebrato nell’amore e nell’offerta generosa, a immagine del Signore, senza divisioni e ipocrisie.

Il vangelo (Gv 6, 51-58) corrisponde all’ultima parte del discorso che Giovanni pone in bocca a Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Gesù si presenta come "il pane vivo disceso dal cielo", che comunica la vita a chi lo "mangia" (v.51). Nel v. 58, si aggiunge un’ulteriore spiegazione: "Questo è il pane disceso dal cielo, non come quello che mangiarono i vostri padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno". La manna data da Dio nel deserto (cf. prima lettura), in realtà, annunciava il vero "pane" che è Gesù, dato da Dio e chi da se stesso fino alla morte al fine di realizzare il nostro passaggio dalla morte alla vita.

Quando il testo evangelico afferma: "il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (v.51), carne (greco: sarx) designa la condizione terrena di Gesù. Il mondo incontra la vita nella misura in cui accetta e aderisce incondizionatamente a Gesù, la Parola che si è fatta carne (Gv 1, 14), il Figlio salvatore del mondo (Gv 4, 42). Si afferma con forza, in primo luogo, l’effetto vivificante dell’incarnazione ("la mia carne") e della morte di Gesù (" io darò") come fonte di vita per il mondo (solo in un secondo momento si può fare di queste parole una lettura derivata di carattere sacramentale — eucaristico). Nei vv. 53-56, si approfondisce la stessa tematica: "Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna…La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui". I termini "carne" e "sangue" ritornano ad evocare la condizione umana del Figlio dell’Uomo; e i verbi "mangiare" e "bere" alludono di nuovo all’atto di adesione senza riserve a Cristo che si è consegnato alla morte per la salvezza del mondo.

Il testo giovanneo è un invito ad accogliere nella fede il dono dell’offerta di Gesù sulla croce per darci la vita, che crea già nella nostra condizione storica una comunione reciproca e misteriosa tra Cristo e il credente, che Giovanni indica con il verbo "permanere" (v.56: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui"). Chi crede in Gesù e vive nella comunione di fede e amore con lui, chi si alimenta della sua parola e si è aperto al suo mistero di offerta sulla croce, si vede introdotto misteriosamente nell’orizzonte dell’amicizia divina. Questo "permanere" mutuo che si produce tra Cristo e il credente è forse il messaggio più profondo del quarto vangelo. Al manifestare la comunione del discepolo con il Figlio, l’evangelista pensa a quell’altra relazione, eterna ed originaria, che è la comunione tra il Padre e il Figlio. La relazione Padre—Figlio è il modello e la fonte dell’immanenza e della comunione reciproca tra Gesù e il discepolo: "Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me io vivo per il padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me" (v.57). Ogni vita, ogni comunione, tanto quella del Padre e del Figlio, come quella del Figlio con il credente, ha la sua origine nel Padre, che "possiede la vita". Così come il Figlio è inviato e vive per il Padre, il credente che "mangia il pane", che è Gesù, vivrà per lui.

Il quarto vangelo descrive così la realtà culminante dell’eterna alleanza tra Dio e l’uomo, realizzata in Gesù Cristo. Un mistero d’amore e di comunione che si attualizza e si sperimenta, in una forma eccezionale, nel mistero della Cena del Signore. E’ indubitabile l’eco eucaristico presente nel discorso di Cafarnao. Certamente bisogna cercare il senso originario del testo evangelico nella chiamata che Giovanni fa a credere nel Figlio dell’Uomo, che è vissuto tra noi e si è offerto, soffrendo la morte per la vita del mondo. Ora bene, tutto questo si realizza, in forma sacramentale, nella comunione eucaristica con il Corpo e il Sangue del Signore. Nell’azione simbolica di "mangiare" il pane e "bere" il calice del Signore" (cf. 1cor 11, 26), si fa presente quel mistero di cui parla Giovanni nel vangelo: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui" (Gv 6, 56). Nell’Eucaristia, il credente non solo significa ed esprime la sua fede nel mistero del Figlio dell’Uomo, che è disceso dal cielo e ha dato la vita al mondo, ma incontra il cibo per questa stessa fede. "Mangiare" sacramentalmente il pane della vita significa entrare in comunione con Colui che è disceso dal cielo e ha dato la vita la mondo.

 

 

 

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