Inverno

 

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Durante il periodo invernale ero particolarmente triste. Non mi piaceva la natura spoglia dei suoi colori, tutto era grigio e quando cadeva la neve tutto era bianco, non ho mai amato questi due colori. Andavo lo stesso a giocare a “palle di neve”, mi piaceva la compagnia dei miei amici, non riuscivo però ad essere allegra e spensierata come quand’ero stimolata dalle verdi fronde degli alberi, dal cielo blu, dai colori dei fiori, dai vestitini di tela leggera che mia madre confezionava per me. Erano bellissimi. D’inverno sembravo un orso tant’erano gli stracci che bisognava portare per non morire assiderati. Ai quei tempi l’inverno si presentava duro, con temperature bassissime, le finestre di casa erano sempre ghiacciate, sembravano scolpite da uno scultore. Noi dicevamo che la finestra aveva i “fiori” che rimanevano fino a febbraio inoltrato. Le stanze di casa non erano mai abbastanza calde, a volte infilavo i piedi nel forno della stufa a legna (“fogolar”) per trovare un po’ di sollievo, le mani erano sempre arrossate, screpolate per le piccole faccende domestiche che la mamma m’insegnava a fare. Per lavare i piatti prendevo l’acqua dalla vaschetta della stufa ma per risciacquarli usavo l’acqua corrente, avevo la sensazione fossero dei piccoli aghi che penetravano la pelle, il dolore è ancora un vivo ricordo. Anche adesso che posso usufruire di tante comodità quando arriva l’inverno divento un po’ triste. L’acqua è sempre calda, i termosifoni distribuiscono un tepore uniforme, non occorre più che mi vesta come un’Eschimese, la stagione è sempre più mite, eppure non amo l’inverno anzi direi, se possibile, che lo amo sempre meno. Vivo eternamente nell’attesa della primavera, gioisco d’ogni piccola gemma che vedo spuntare sui rami dei cespugli, mi avvolgo del tiepido sole, annuso i primi profumi che intuisco più che sentire, mi tolgo il grigiore della stagione che non ho mai amato. Gli inverni della mia infanzia e della mia adolescenza poi, erano segnati da tre ricorrenze felici: Natale, il compleanno e carnevale. In quei giorni non sentivo il freddo, mi appariva come d’incanto la magia, ero felice, volevo essere felice. Fare l’albero e il presepe voleva dire dare libero sfogo alla fantasia e m’impegnavo molto anche se il risultato non era eccezionale. Avevo pochi mezzi a disposizione. Il muschio lo raccoglievo io, si comprava un alberello, si creava un’atmosfera insolita. Lo sfondo del presepe, con la stella cometa e tante stelline, lo disegnavo, con la porpora color argento, su carta da impacco blu. Le montagne, che erano collocate in alto, vicino allo sfondo, erano pezzi di sughero, le stradine erano spolverate di borotalco, i laghetti erano pezzi di specchio. Le “statuine” erano il vero capitale. Ogni anno si acquistava qualche personaggio nuovo e la scelta era veramente difficile, mi piacevano tutte. All’albero erano appese tante palline colorate e tanti soggetti natalizi di cioccolato. La punta era sempre rossa, i rami cosparsi di cotone idrofilo, la neve finta, era Natale ed io volevo essere felice. Mia madre mi lasciava fare, non interferiva mai, aveva paura che rompessi qualche ninnolo, mi diceva che ero sempre troppo frettolosa ma quando vedeva l’esito era contenta anche lei. Ogni tanto mi cadeva qualcosa, l’abbracciavo stretta, stretta, chiedevo perdono e lei mi chiamava “ruffianella” e tutto finiva lì. Il locale adibito a “cucina” della mia casa diventava scintillante, aveva una luce diversa, si addicevano anche “i fiori” alle finestre, la neve che scendeva fitta, copiosa a farfalloni enormi regalava una gioia che solo in quei giorni apprezzavo, era il contorno magico alla mia sfrenata fantasia. Sognavo d’esser la regina buona, la moglie d’Erode che proibisce al marito d’esser malvagio, i bambini  sarebbero stati al sicuro, nessuno li avrebbe perseguitati. Sognavo e sognavo, era bellissimo poterlo fare d'inverno. Fra sogni, magie e quant’altro arrivava il 24 dicembre, giorno del mio compleanno. Mia madre aveva sempre in serbo un regalo, quello che ricordo particolarmente è una minicucina, con tavolo e seggioline, adatta per le mie bambole. Era azzurra, decorata a fiori gialli, era stupenda, non stavo in me dalla gioia. L’unico inconveniente era che con un unico regalo mi dovevo accontentare sia per Natale sia per il compleanno. Il pranzo del 25 dicembre era sontuoso, ci si metteva a tavola a mezzogiorno, si finiva verso le due. C’era ogni ben di Dio, mio padre non ci faceva mancare niente per quel che riguardava il cibo. Alla fine del pasto era sempre un po’ “allegro”, usciva per comprare il pandoro, dolce costoso per l’epoca e poco conosciuto. Ritornava dopo una paio d’ore ancora più “allegro”, diverso, gli occhi sembravano due fessure, dava libero sfogo ai suoi malumori. Mia madre cambiava espressione, tutta la magia se n’andava, io volevo scappare. Sergio, mio fratello, era già sposato, conosceva meglio di me come si svolgevano “le feste in famiglia”, preferiva starsene con la moglie e il figlio dopo aver fatto una capatina per gli auguri, tutto rigorosamente formale. Questo era l’epilogo dei miei giorni felici. Riprendevo ad odiare l’inverno fino a carnevale. Mia madre confezionava i vestitini che avrei indossato, si faceva aiutare da Marisa, una sarta che abitava sullo stesso pianerottolo. Avevo all’incirca 11 anni, frequentavo la quinta elementare e la maestra decise di fare una piccola festicciola per le “mascherine”. Ognuna sarebbe arrivata a scuola vestita con l’abitino carnevalesco. Ero una fatina dalla testa ai piedi, tutta azzurra con un gran cappello a cono dal quale partiva un velo bianco spolverato di stelline azzurre. Decisi, per l’occasione, che avrei scritto qualcosa da leggere in classe. Scrissi la mia prima, vera poesia. Ero emozionatissima, ricordo che salii sulla predella invitata dalla maestra, il cuore sembrava voler uscire dal petto, le mani gocciolavano, volevo che il pavimento s’aprisse e m’inghiottisse. In completa apnea recitai la poesia e gli applausi mi sembrarono come uno starnazzare d’oche sghignazzanti. Decisi che mai, mai più mi sarei prestata per qualsiasi esibizione. Nel corso della vita mi sono esibita tante volte quanto “il benefico alcool "disinibitore” me l’ha permesso.